Da quando ci sono stati gli scontri a Juba, capitale del Sud Sudan, qui a Yirol c’è un’atmosfera strana, quasi sospesa direi.
So che sembra difficile crederlo, ma qui ad Yirol le ricadute principali, già dal secondo giorno di disordini in capitale, sono state più sul versante commerciale: finite immediatamente le ricariche telefoniche, finito il carburante.
Nessun disordine invece, ognuno ha proseguito le sue attività.
Del resto qui la gente è orgogliosa, ci tiene ad ostentare normalità, anche se sempre con le orecchie tese a qualsiasi notizia, voce, commento che arriva da Juba.
Per fortuna, mi verrebbe da dire, l’ospedale è strapieno di pazienti per il brusco incremento stagionale dei casi di malaria: così tutto il personale si è mantenuto impegnato nelle attività assistenziali, tranne il 20 luglio, giorno della manifestazione, indetta dal governatore qui come in tutte le principali città del paese, per ribadire la sovranità popolare in Sud Sudan e il dissenso all’invio di militari stranieri nel paese.
Certo in una situazione di povertà materiale e culturale come questa la nostra paura era che il messaggio arrivasse distorto, sotto forma di “caccia alle streghe” verso qualsiasi straniero, ma per fortuna è stata una manifestazione pacifica e senza strascichi. Hanno partecipato soprattutto gli studenti delle scuole, su invito scritto del governatore. Anche il personale dell’ospedale, a parte quello impegnato nei servizi d’emergenza, è andato ad ascoltare il discorso del governatore, ma poi il pomeriggio stesso sono tornati in ospedale addirittura per seguire un training e ci hanno rassicurato: “Doctor, voi qui non dovete avere paura”.
E in verità, pur costantemente in ascolto, non solo dei mezzi di comunicazione, ma anche degli animi della gente, nessuno di noi qui ad Yirol ha mai pensato in queste settimane di lasciare l’ospedale. Non ci sono le condizioni ora per abbandonare questa gente: ogni giorno vediamo 200 bambini in ambulatorio, almeno 60 sono ricoverati in pediatria, un giorno di lavoro in più può significare tanto per questa comunità… finché la situazione, così come ora, ce lo consente, andiamo avanti.
Il mio timore non è per l’immediato, ma per il medio lungo termine. Il Sud Sudan è un paese che non ha riserve, dipendente dall’esterno anche per l’essenziale: non si trova più cibo al mercato, niente farina, niente cereali, niente zucchero, niente cipolle (altra verdura ad Yirol non c’è praticamene mai stata). Chi ha accumulato un po’ di riserve in casa sopravvive, ma per quanto? La gente fa davvero fatica. L’altro giorno anche un nostro infermiere è svenuto per ipoglicemia; i nostri dipendenti sono tra i pochi fortunati che stanno continuando a ricevere uno stipendio, ma i commercianti qui sono in buona parte stranieri, diversi se ne sono andati. Quelli rimasti, complice anche la stagione delle piogge e la scarsa percorribilità delle strade, fanno comunque fatica ad approvvigionarsi.
Rimaniamo, saldamente ancorati alla quotidianità del lavoro, ma allo stesso tempo incapaci di staccare lo sguardo dall’orizzonte, per cercare di cogliere quello che prima o poi succederà.
Arianna Bortolani – Direttrice sanitaria dell’Ospedale di Yirol