A farmi impressione è soprattutto il silenzio. La sala parto è piccola, i tre letti a disposizione sono occupati da altrettante donne ma nessuna di loro parla o si lamenta nonostante il dolore del travaglio.
Osservo Isabel e riesco a notare soltanto che è molto giovane. Ha il volto sofferente ma non si lamenta: sarà la prima a partorire e noi siamo tutti qui per lei.

Questa mattina Serena, la ginecologa Cuamm che opera all’ospedale di Chiulo, l’ha trovata accasciata su una panca, in attesa. Era sfinita, arrivata sola dopo un viaggio che non possiamo conoscere. Non chiedeva niente. Aspettava.
Serena l’ha subito visitata e i risultati non sono stati buoni. Isabel aspetta due gemelli, ma uno dei due feti è già morto. C’è stato un rapido consulto con i colleghi, poi insieme hanno deciso di accelerare i tempi e indurre il parto. Non si può sapere da quanto tempo il feto sia morto e che tipo di complicanze questo possa comportare.

Vengo invitata a partecipare al parto come semplice osservatrice e questo mi mette a disagio. Provo un senso di colpa che non mi abbandona, perché mi sento un’intrusa nel momento più duro e intimo della vita di una donna. Penso a quando sono stata io a partorire, alle cure che ho ricevuto, al bisogno di privacy che sentivo e a come tutti si siano adoperati per fare il possibile per me. Poi guardo Isabel e penso che sta per partorire in una stanza affollata, senza un compagno accanto, in mezzo a dottori e sconosciute che la circondano. Faccio in ogni momento il confronto con l’Italia.

La ragazza si lascia sfuggire un gemito. Viene aiutata a voltarsi su un fianco per provare ad alleviare il dolore, così si trova a pochi palmi dalla donna stesa sul letto accanto, anche lei sistemata su un fianco. Sono faccia a faccia, e una può osservare negli occhi dell’altra ciò che la aspetta da lì a qualche ora. Si scambiano un lungo sguardo pieno di complicità, poche parole sussurrate che non colgo.
Poi è il momento di spingere.

Quando il piccolo è nato non l’abbiamo sentito piangere. Serena ha cercato di rianimarlo, ha fatto accendere il generatore per attivare la culletta termica e poi ha mandato a chiamare Maria Clotilde, la pediatra. Dopo qualche istante il bambino lascia uscire un verso acuto, strano. Eppure dimostra di avere forza nei muscoli, di aver voglia di resistere.

La sera a cena non si parla mai di ospedale. C’è bisogno di alleggerire, di scacciare i brutti pensieri per un attimo, sempre consapevoli che può arrivare una convocazione d’emergenza da un momento all’altro. Io però fatico a mangiare. Appena tutti si alzano, ne approfitto per fare due passi fuori dal compound che ci ospita. Mi spingo fino alla strada, una lingua di terra rossa che da un lato scompare nel buio e dall’altro finisce, in maniera allo stesso tempo imprevista ed evocativa, contro il portone della chiesa.

Immersa nel silenzio non posso che ripensare a Isabel e al suo bambino, alla forza che entrambi stanno dimostrando e al coraggio con cui tante mamme e donne angolane affrontano, ogni giorno, la vita.

Marianna Costanzo
Responsabile desk Angola in visita di monitoraggio

La storia di Isabel, giovane mamma angolana, vuole raccontare la seconda tappa del cammino dei 1.000 giorni, il parto, e ci ricorda oggi quanto sia delicato questo momento, soprattutto nell’ultimo miglio, dove per raggiungere le strutture sanitarie servono viaggi faticosi, a volte insostenibili; dove i reparti sono affollati e i mezzi non sono mai sufficienti, ma dove si affronta ogni prova, anche la più dolorosa, con coraggio e dignità.

Scopri come puoi sostenere le mamme africane nei 1.000 giorni che vanno dal concepimento ai due anni di vita del bambino, leggi cosa facciamo nei sette paesi interessati da programma “Prima le mamme e i bambini. 1.000 di questi giorni“.

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