Khalas. È curioso come questa sia la prima parola araba che si impara in Sud Sudan. Khalas vuol dire fine ed è il termine usato dalla gente del posto per chiudere una conversazione. Ogni volta che viene pronunciata è accompagnata da un sospiro, segno ultimo della fatica che si consuma durante il dialogo. Può apparire strano ma è così. Per i giovani della tribù Dinka è più facile imbracciare un kalashnikov e vendicarsi dei torti subiti che cercare un accordo con le parole. Una tendenza frutto del lungo conflitto che affligge l’intero paese da ormai più di trent’anni e che non accenna a diminuire di intensità nemmeno dopo l’accordo di pace firmato alcuni mesi fa.
Nei Lakes, si fa presto ad accorgersene appena si arriva, regna l’anarchia. Non quella positiva ed ottimistica teorizzata da Proudhon, ma una situazione caotica in cui non si può sapere di chi fidarsi e a chi affidarsi. Soldati contro ribelli, polizia contro cattle keepers, villaggi incendiati, bestiame rubato, donne violentate, feriti e morti che riempiono gli ospedali, ladri nei compound, funzionari corrotti, strade sommerse dall’acqua, un’economia che cola a picco e un malgoverno dilagante. Tutto questo è il Sud Sudan. Ma non solo.
Ci sono anche persone che spingono per il cambiamento. Persone che curano i feriti senza pensare a quante linee hanno incise sulla fronte, persone che permettono la nascita di bambini e la prosecuzione della vita per le madri, persone che vedono nell’agricoltura una risorsa, persone che lavorano ogni giorno e che sanno che con il sudore potranno sfamare sé stessi e la loro famiglia. Sono loro quelli che mi spingono ad andare avanti e a pensare che questo paese lacerato può crescere e migliorare. Finché un giorno le discussioni finiranno senza proiettili e senza sospiri. Khalas.
Alfonso Perugini – Amministrativo Cuamm in servizio a Rumbek da marzo 2015