Immaginate dei bambini italiani girare curiosi e contenti, ma anche un po’ nostalgici, per le vie di in una cittadina della Tanzania dove si sono trasferiti da poco. Si imbattono come per un miraggio in un campo di basket, con dei bambini che giocano e fanno il loro allenamento. Si siedono sul muretto e li osservano con un po’ di invidia. Fino a che, dopo pochi minuti, arriva la chiamata dell’allenatore: «Karibuni, come and join us!», “Benvenuti, venite con noi!”.

Questi bambini non sanno l’inglese, tanto meno il kiswahili, ma il sorriso di Mr. Emil parla da solo. I nostri si illuminano: si lanciano sul campo, non serve parlarsi, si capiscono benissimo lo stesso.

Da allora a Tosamaganga ci stiamo abituando: allenamento tre volte a settimana al campetto della diocesi, partita il sabato mattina al campo dell’Università, rapido apprendimento del kiswahili (molto più rapido dell’inglese a scuola!). Un giorno chiedo a Mr. Emil come fare per pagare l’iscrizione al basket dei bambini: altro sorriso. Nessun pagamento mi dice, se volete una donazione al Ruaha Basket Foundation. Accenno a qualche indumento, questa volta è lui che si illumina.

Racconto l’episodio in un breve messaggio di Whatsapp agli amici romani, compagni di quartiere e genitori di figli che frequentano le stesse scuole e gli stessi campi da basket dei miei. Tempo un mese e arriva con i nonni una valigia contenente 16 chili di divise da basket gialle e blu per ragazzi di varie età, divise usate, con tanto di nome e numero sulla schiena, dell’Esquilino Basketball di Roma.

Le consegniamo ai ragazzi, una vera festa, ed una grande emozione. I ragazzi durante la partita si chiamano con il nome scritto sulla schiena del loro piccolo donatore italiano, creando un’unione indissolubile tra il Ruaha Basket Foundation di Iringa, piccola cittadina 500 km a sud-ovest di Dar Es Salaam, e l’Esquilino Basketball di Roma. Così Benjamin diventa Andrea, Kevin diventa Sofia, e noi che conosciamo entrambi cerchiamo somiglianze e ci fa tanta tenerezza. Nella squadra, grazie al suo fantastico allenatore che dedica tanto del suo tempo a questi ragazzi solo per passione, c’è anche una bambina: Stella, cosa affatto scontata qui in Africa. Facciamo tante foto, ci diamo appuntamento al giorno dopo per la partita, e l’allenatore mi dice: «Grazie, adesso anche noi siamo una squadra».

Ci viene in mente che sarebbe bello un giorno riuscire a far incontrare i ragazzi romani con quelli di Iringa, magari per una bella partita, anche se, come dice un mio figlio “mi sa che ci becchiamo di brutto”. Ma ovviamente, non tutti a casa sono d’accordo.

Giovanni Torelli – Medico responsabile della gestione dell’ospedale di Tosamaganga, Tanzania

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