Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, è rientrato da qualche giorno dalla Sierra Leone dove ha incontrato autorità, operatori sanitari, popolazione locale e ha misurato con mano la complessità della situazione (leggi anche l’aggiornamento del 9 settembre 2014). Di seguito sono riportati alcuni suoi brevi appunti per condividere fatiche, dolori, impegno che gli operatori Cuamm continuano a spendere ogni giorno restando in prima linea.
- 25 agosto 2014
Ieri, tarda serata, arrivo a Freetown, con un aereo dell’Air France. Assieme al passaporto e all’entry permit ti controllano anche la febbre. Già da subito ti intimorisci perché lo fanno con una sorta di “pistola laser” che ti puntano alla tempia. Sembra già una “profezia” di condanna a morte.
Oggi sveglia all’alba per trasferirci a Pujehun, distretto rurale nel Sud del Paese dove stiamo lavorando. Prima del viaggio però una rapida visita all’ospedale governativo della capitale, Connaught Hospital: un giovane paziente sospetto di Ebola, rinchiuso nell’isolation unit in attesa dell’esito del test di laboratorio, urla e si dimena come un ossesso, sputando e gridando che lui non è ammalato e che vuole uscire. Cerchiamo di ripararci ma capisci subito quanto facili siano i contatti con la malattia. A Freetown la vita è come rallentata, meno affannosa del solito, le strade quasi deserte. Anche da Franco, un noto ristorante sulla costa dell’oceano, i clienti si sono drasticamente ridotti: da una media di 150-200 durante il fine settimana adesso si arriva a malapena a 8-10, ci racconta il proprietario italiano.
- 26 agosto 2014
Siamo a Pujehun. Ore 9, nel compound dell’ospedale si ritrova il District Health Management Team (DHMT) di cui il Cuamm fa parte. Ogni giorno si fa il punto sulla situazione dell’epidemia nel distretto, uno dei più popolosi ed estesi del Paese, più di 300.000 persone. Finora 9 morti per Ebola, quasi tutti provenienti da Zimmi, il focolaio (hot spot) più acuto della malattia, una delle località del distretto, oltre il fiume Moe. Si fa il punto sui materiali: guanti, stivali, tute, occhiali, maschere, clorina; e poi la formazione del personale, i contact tracers (coloro che studiano come e dove sono avvenuti i contatti e si spostano nelle comunità per identificare i casi sospetti), l’isolation unit con acqua corrente e luce fino ai “burial team” (gruppi di 8 persone che sono incaricati della corretta sepoltura dei corpi, il momento forse più favorevole per il contagio).
In tarda serata intanto, Ibrahim, un bambino di 14 mesi non ce la fa: la grave malaria e la malnutrizione ancor più drammatica lo hanno ucciso. Paolo, chirurgo, e Chiara, ostetrica, hanno continuato per quasi un’ora a rianimarlo. Alla fine, Chiara con le lacrime agli occhi mi guarda e mi dice: “Speravo proprio di tirarlo fuori; gli volevo bene!!”. Assieme all’Ebola la gente continua ad ammalarsi e a morire per cause molto più ordinarie e meno clamorose!!
- 27 agosto 2014
Visita all’ospedale di Kenema, nel distretto vicino al nostro, cuore dell’epidemia in Sierra Leone. Entriamo nella struttura; è completamente vuota se non fosse per gli ammalati di Ebola. È un campo di concentramento: guardie in tuta bianca, percorsi obbligati, regole rigide, check-point ovunque. La gente ha paura e anche noi! Osservo una giovane mamma con il suo bambino in braccio: ha appena saputo che la sua creatura, sospettata di Ebola a causa della febbre, non c’è l’ha. Una lacrima le scende dal viso mentre lo stringe forte e lo bacia!! Senti di essere davanti a una “bestia” invisibile, impalpabile eppur mostruosa e mortale!
Mentre aspettiamo, due “marziani” con stivali, tuta ed elmetto trasportano fuori dal reparto “Ebola” un corpo nascosto in un telo bianco, lo depositano su una barella per portarlo nella “mortuary” (obitorio). Dopo mezz’ora ne vediamo un altro. E ogni giorno così! Finora, solo a Kenema, ci sono stati 158 morti di Ebola, di cui 27 tra medici e infermieri. Solo negli ultimi 3 giorni ci sono stati 4 tecnici di laboratorio che hanno perso la vita. La bacheca davanti all’ufficio del Direttore dell’ospedale, dottor Vandi, è tappezzata di epigrafi-ricordo con dati e foto del personale sanitario scomparso: trentadue, trentasette, ventotto, trentacinque anni e così via; e tutti tra giugno e agosto.
Il cuore si stringe perché intravedi in quelle foto le loro vite, i loro affetti, i loro sogni, stroncati e distrutti, in un batter d’occhio. Senti il bisogno di silenzio e di preghiera. Abbiamo concluso la giornata accompagnando il pick-up dell’ospedale fino ad un vicino campo adibito a cimitero: altri tre corpi sepolti, ad allargare l’esercito dei caduti!! Durante il viaggio di ritorno a Pujehun non c’era voglia di parlare.
- 28 agosto 2014
Ultimo giorno: siamo stati a Zimmi. Sveglia presto al mattino. Quattro ore di macchina, due ore di attesa prima di attraversare il fiume e poi fino a questa cittadina di 10.000 abitanti, che è il focolaio, il centro dell’epidemia del distretto di Pujehun. Da lì sono venuti i casi di Ebola che abbiamo avuto nel nostro distretto, 9 casi, gli ultimi due morti poco prima che arrivassimo. Sono abbandonati perché non esiste una isolation unit, e sepolti dopo la morte in una fossa comune dietro questo edificio. Manca tutto, manca in particolare il materiale di protezione per il personale sanitario.
Abbiamo poi visitato la scuola, negli ultimi giorni al centro dell’attenzione delle autorità locali. Ci sono 46 mamme, bambini e qualche adulto maschio messi in quarantena, isolati dalla comunità, perché c’è paura che diffondano il contagio. Così, se anche ci fossero uno o due contatti confermati Ebola postivi, il rischio è che tutti gli altri – proprio perché vivono a stretto contatto – possano contrarre il virus. Sarebbe un dramma. La gente ha paura.