Rimane tesa la situazione a Juba, in Sud Sudan, a meno di una settimana dallo scoppio degli scontri che hanno coinvolto gli eserciti fedeli al presidente Salva Kiir e al vicepresidente Riek Machar e che hanno portato alla morte di diverse centinaia di persone, il cui numero preciso non è ancora ufficiale. Per il momento tiene il cessate il fuoco e si respira un clima di calma apparente, aspettando di vedere quali saranno le prossime mosse delle parti in conflitto.
Valerio Granello, il nostro rappresentante paese in Sud Sudan, è impegnato a monitorare la situazione e a mantenere i contatti con gli oltre quaranta medici e operatori di provenienza internazionale del Cuamm impegnati nel Paese. Con Granello sono presenti a Juba altri due volontari del Cuamm, tutti rimasti a vivere in un compound condiviso con altre organizzazioni internazionali, che in questi giorni si è letteralmente svuotato per l’evacuazione disposta dalle singole Ong o dalle ambasciate straniere.
«Ieri, giovedì, per la prima volta siamo usciti di casa per andare in ufficio – racconta Valerio Granello – dopo quasi una settimana passata all’interno del compound. Tecnicamente si dice che siamo stati “ibernati”. L’ufficio si trova dall’altra parte della città e per raggiungerlo abbiamo cercato di evitare il più possibile le strade principali, per non incorrere nei posti di blocco dell’esercito, ancora presenti nei punti sensibili della città».
«La situazione è abbastanza strana – continua Granello –. Infatti, se non si considera che l’80% degli stranieri ha abbandonato Juba e quindi il traffico è notevolmente diminuito, ad un primo sguardo sembra che non sia successo nulla. I carri armati sono usciti dalla città e non ci sono grandi segni di quello che è successo. La gente sembra ritornare alle solite attività, ma venerdì e domenica c’è stata una vera e propria guerriglia urbana. Sentivamo gli spari da casa e gli elicotteri che sorvolavano la città. Noi eravamo spaventati, ma i colleghi Sud Sudanesi lo erano ancora di più.
Questa l’immagine che si può avere però percorrendo le zone che non sono state teatro degli scontri. Queste ultime restano infatti ancora presidiate dai militari, perché sono in corso le operazioni di recupero dei corpi delle vittime.
Commentando la “normalità” che si respira con i colleghi, mi è venuto naturale osservare la capacità di resilienza di questo popolo, considerando che la maggior parte delle persone è nata e sta vivendo in una situazione di conflitto»
La calma che si osserva a Juba sembra essere solo apparente: le truppe del vicepresidente Machar sono fuori città per evitare nuovi scontri, ma ad oggi tutti gli stati del Sud Sudan sono attraversati da tensioni più o meno forti. Sempre ieri arrivavano notizie di scontri da Kediba, lontano dalla capitale, cittadina in cui personale del Cuamm è operativo nell’intervento di salute pubblica sul territorio, a sole due ore di auto dall’ospedale di Lui.
In questa zona – spiega ancora Granello – sono riprese le tensioni tra i cosiddetti “arrow boys”, gruppi di giovani armati che già a settembre 2015 avevano destabilizzato la zona, in opposizione al governo di Salva Kiir e alle sue truppe. Dal coordinamento di Juba, la città dove al momento la tensione è più alta, siamo in contatto continuo con i nostri medici e operatori in tutto il paese. Sappiamo che al momento il personale dell’ospedale può sentirsi davvero protetto, perché, al di là delle convenzioni internazionali, la popolazione e anche gli insorti riconoscono il valore del lavoro dei medici. Lo abbiamo visto sempre a Lui, dove nonostante gli scontri dell’anno scorso abbiamo scelto di rimanere. Negli scorsi mesi l’impegno ci è stato riconosciuto pubblicamente dalla comunità locale, come partecipazione attiva al difficile processo di pace: “Si riconosce un amico quando rimane al tuo fianco al momento del bisogno”, ci ha detto allora il prefetto locale».
Per questo tutto il personale di Medici con l’Africa Cuamm ha scelto di non abbandonare il Sud Sudan: per continuare a offrire assistenza sanitaria proprio in uno dei momenti più critici per la popolazione, che soffre per le gravi conseguenze di lotte intestine che si protraggono da anni, molto spesso senza attirare l’attenzione dei media.
«Dobbiamo sperare che la situazione si risolva presto – conclude il nostro rappresentante a Juba –. I Sud Sudanesi non possono uscire dal Paese, i confini sono bloccati per evitare un esodo di massa. Ma gli sfollati sono migliaia, 45.000 solo negli ultimi giorni nella zona della capitale Juba. Si muovono da un punto all’altro per evitare nuovi rischi, con tutti i disagi e le criticità sanitarie che ne derivano. La gente vive gli eventi costringendosi ad andare avanti, ma non può continuare per sempre. E se la capitale si blocca come è successo in questi giorni, si blocca tutto il Paese».