Da diversi anni, Medici con l’Africa Cuamm ha deciso di concentrare i propri sforzi lì dove malattie prevenibili e curabili colpiscono i più vulnerabili: mamme, bambini, comunità che non accesso accesso alle cure e per cure non si intendono quelle sofisticate, ma quelle salvavita che anche un infermiere con qualche mese di formazione può erogare.
Il Sud Sudan è senza dubbio un paese in cui tutto questo si vive all’ennesima potenza per i noti motivi: la guerra, risorse inadeguate per la sanità, territori in larga parte inaccessibili e aridi, scolarizzazione ai minimi termini e povertà estrema.
Da novembre 2016, il Cuamm ha ricevuto dal governo locale l’incarico di gestire i servizi di salute di 3 Stati con 8 contee. È l’ex-Stato dei Laghi con più di 1 milione di abitanti, di cui 58.000 donne incinta e 250.000 bambini sotto i cinque anni d’età. È senza dubbio il più grande progetto in corso del Cuamm in Africa.
Proprio in vista di questo impegno, a luglio 2016, sono andato nelle contee di Awerial e Yirol East, nella parte est di questa regione, a fare un valutazione dei servizi sanitari esistenti, per poter raccogliere elementi su cui preparare il progetto. Dall’ubicazione e distribuzione delle unità sanitarie esistenti, ci siamo subito accorti che si tratta di una vastissima area, comprendente le sponde del Nilo e le sue isole, completamente sprovvista di alcun tipo di centro sanitario anche, che so, di un semplice drugstore con farmaci salvavita per malaria, diarrea e broncopolmoniti.
Non bisogna essere esperti di Salute pubblica per capire che quando abiti a più di 40 chilometri, dalla più vicina unità sanitaria, la tua vita è appesa a un filo. Nonostante l’abbondanza di pesce, e anche di latte e carne delle mucche che lì, spesso, vengono portate a pascolare nei kral, se ti ammali di una di quelle malattie citate, hai poco scampo. E così è stato. A gennaio sono iniziati ad arrivare alla contea di Awerial le notizie di persone malate con diarrea profusa, molte delle quali morte nei villaggi o durante il tentativo di arrivare all’unità sanitaria.
Awerial
Awerial, esattamente a Mingkaman è il posto in cui, a causa della guerra, si sono accumulati circa 100.000 sfollati, che vivono in condizioni a dir poco disperate. Ma questi almeno hanno accesso alle cure presso le unità sanitarie e hanno imparato dove prendere l’acqua, come cucinare e gestire la capanna con un minimo d’igiene, grazie alle numerose agenzie per l’emergenza che si sono succedute per anni. Per questo i pazienti di colera, per la maggior parte, arrivano da molto lontano, proprio lì, dalle sponde sul Nilo dove periodicamente, specie nei mesi caldi, un mollusco presente nell’acqua e che contiene il vibrione si riattiva, rientrando nel ciclo alimentare delle popolazioni, specie dei pescatori. Il primo segnale dell’epidemia, quindi, arriva da questa contea nella quale, grazie a una pronta risposta, oggi si contano 111 ricoveri con 1 solo decesso e 6 decessi avvenuti nelle comunità. Ma prima di parlare di colera bisogna esserne certi e questo richiede tempo, specie se si considera che far arrivare un campione dei pazienti sospetti a Juba, la capitale del Sud Sudan, è difficile.
Yirol East
Quando la notizia di queste diarree profuse con tanti morti ha cominciato a provenire dalla contea di Yirol East, allora il Cuamm, unica Ong responsabile dei servizi di salute in quel vasto territorio, ci siamo molto preoccupati. Dal 5 di febbraio il numero dei casi che si registravano, anche per sentito dire, era importante. Tre le sedi a cui afferivano i pazienti che riuscivano ad arrivare a piedi: Adior (a tutt’oggi 61 ricoverati e nessun decesso), Langmatot (24 ricoverati nessun decesso nell’unità, ma 10 nella comunità).
Ad Adior, martedì 6 febbrio, incontriamo il responsabile dell’unità sanitaria, disperato: il pozzo si era rotto e i pazienti erano senz’acqua. Trattandosi d’emergenza, perché un paziente affetto da colera, muore in pochissimo tempo, se non ha acqua, andiamo a cercare nei mercatini locali tutte le taniche disponibili. Ne troviamo 12 da venticinque litri l’una. Le laviamo, le riempiamo al pozzo distante 10 chiilometri e le portiamo a loro. Il giorno dopo, rientrati da Shambe, facciamo lo stesso. E poi, il terzo giorno, sono arrivati gli operai di Help, una ong tedesca che si occupa proprio di sanità e pozzi. Davvero un intervento Provvidenziale.
Ma parliamo di Shambe, il porto sulla riva sinistra del Nilo, famoso perché lì si fermò San Daniele Comboni a metà dell’1800. Vista la situazione e le condizioni di precarietà di quella gente, ai primi di gennaio, abbiamo cominciato a rinnovare l’edificio di un’unità sanitaria, che era attivo fino a 10 anni prima e poi abbandonato, perché l’area è considerata insicura dalle Ong. Ma per il Cuamm quello è proprio l’ultimo miglio, lì da dove si deve partire se s’intende seguire criteri di equità in sanità. Ed è da lì che i numeri dell’epidemia si sono fatti gravi. Dal 5 febbraio, in 10 giorni, sono stati ricoverati 102 pazienti, di cui 5 deceduti perché arrivati in condizioni gravissime.
Ma quello che più è allarmante sono i racconti che giungono dai sopravvissuti che parlano di decine e decine di morti che si aggiungono ogni giorno in quelle isole, sulle sponde del Nilo dove nessuno è mai voluto andare.
Un eroe per tutti
A Shambe lavora una persona speciale: John Major. Lì purtroppo la radio per le comunicazioni si è rotta e per qualche settimana è rimasto isolato. Proprio da lui, sono cominciati ad arrivare, a bordo di tronchi d’albero scavati e pesantissimi, decine e decine di pazienti. Lui ha cercato di fare tutto quel che poteva, con pochi farmaci e senza protezioni, e così, salvando tante vite si infettato. Per fortuna si è subito reidratato ed è riuscito a prendere una vena per farsi delle flebo.
Lo ha raggiunto subito Leopold, nostro coordinatore di contea a Yirol East, portando con sé quello che era riuscito a recuperare: presidi di protezione individuale, fluidi, antibiotici. Insomma tutto quello che era disponibile tra Yirol West e Yirol East ed in più 3 persone qualificate che si sono poi fermati li a valorare. Poi, il giorno dopo, si è fatto un secondo viaggio con altro equipaggiamento e farmaci portati anche da Who. Con loro sono stati fatti i primi test sulle feci dei pazienti che sono tutti risultati positivi per il colera.
In quel frangente Jhon Major ha chiesto di andare a casa dalla famiglia. Ma il giorno dopo ha voluto assolutamente tornare a Shambe: “non posso abbandonare la mia gente!” Queste le sue parole!
Quel giorno abbiamo fatto una prima uscita con la barca, presa in prestito dal Ministero dell’Agricoltura, per cercare di capire come organizzare un programma di soccorso alle popolazioni rivierasche. Ma certo quelle parole di John, ed il suo esempio, avevano scavato profondamente.
In 12 giorni d’intervento il Cuamm è riuscito ad attivare 3 centri per il trattamento del colera.
Adesso il Cuamm sta avviando una serie di interventi. Certo è difficile pensare di andare lì dove il colera nasce e cresce, sul quel fiume colmo di storia che per noi davvero è ultimo miglio e in cui cercheremo di fare la nostra parte, con quel che abbiamo.
Il colera
Il colera è un infezione da parte di un batterio, il Vibrio cholerae o vibrione che si trasmette per via oro-fecale e si localizza all’intestino tenue. Quasi il 90% delle persone infette non ha sintomi ed è portatori sani del batterio. Il restante 10-20% vanno incontro, anche dopo poche ore dall’infezione, a profusa diarrea, fino a perdere un litro di feci in un’ora. E queste sono caratteristiche, ad “acqua di riso”. Quando c’è assenza di dolori di stomaco, il paziente non trattato praticamente si spegne, per mancanza di liquidi, in modo indolore.
Se il paziente viene prontamente reidratato, tramite una soluzione di acqua e sali, o nei casi piu’ gravi, con delle infusioni di liquidi endovena, e con degli antibiotici in aggiunta, la mortalita’ e’ inferiore all’1%.
Nonostante sia una malattia facilmente curabile nel Mondo si contano ogni anno fino a 130,000 decessi, e ovviamente circoscritta ai paesi in via di sviluppo. E questo perché la povertà, la carenza di acqua potabile, l’educazione all’igiene e l’accesso alle cure sono la vere cause di queste morti
Giovanni Dall’Oglio, dal Sud Sudan