«La popolazione è stanca di questa situazione, eppure si continua a combattere».

Chiara Scanagatta, country manager Cuamm in Sud Sudan dal 2012 al 2015, è da poco rientrata da Juba. Da dicembre 2013 il paese è attraversato da un conflitto tra il governo guidato dal presidente Salva Kiir e i ribelli fedeli al suo ex vice, Riek Machar. Le pressioni della comunità internazionale e il tanto atteso accordo di pace, firmato lo scorso agosto, non hanno ancora portato alla creazione di un governo di transizione. Annunci e smentite si inseguono; quella che rimane è una delle più grandi emergenze umanitarie del mondo, con 2,3 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case (fonte Unhcr – marzo 2016). La pace sembra più che mai lontana.

«I conflitti si moltiplicano: la guerra lega le mani al paese e rende difficile qualsiasi cambiamento. Invece di migliorare, la situazione peggiora. Il conflitto si sta spezzettando, si aprono nuovi fronti, anche per malcontenti locali nei confronti del governo o dell’opposizione».

Chiara Scanagatta, intervistata da Davide Maggiore nell’ultimo numero della rivista Il Regno, non nasconde l’apprensione che cresce tra gli operatori Cuamm impegnati a portare cure e assistenza in questa fragile situazione:

«Con l’avanzare delle ostilità la popolazione non è solo rimasta senza approvvigionamenti, ma è dovuta scappare. In Western Equatoria, dove lavora Medici con l’Africa Cuamm, non si sono formati campi come negli altri stati, ma gli sfollati si sono rifugiati presso famiglie della zona, con la conseguenza che, ad esempio, il cibo che bastava per cinque persone, ora deve sfamarne dieci o quindici.
C’è stato bisogno di ricalibrare le attività, pianificando in modo diverso le uscite sul territorio e la distribuzione dei farmaci e si è arrivati a proporre di considerare sfollata la popolazione di intere parti di contea: in effetti i villaggi che un giorno sono tranquilli possono non esserlo ventiquattr’ore dopo, perché si diffondono voci di un possibile assalto».

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