Carissimi,
ciascuno di voi, a suo modo, è parte di questa grande famiglia che è il Cuamm. Per questo continuiamo ad aggiornarvi su quanto succede in questo momento in Sierra Leone dove i nostri operatori da diversi mesi ormai combattono contro Ebola, il virus che in Guinea, Liberia e Sierra Leone ha causato fino ad oggi oltre 3.400 morti (dati OMS).
Ebola è un’emergenza che avanza e che non risparmia nessuno. E questo ci spinge ancora di più, nonostante la fatica, la stanchezza e la paura, a rinforzare la nostra presenza lì, a garantire il nostro impegno, mettendo a disposizione le forze e le risorse che abbiamo. Non possiamo – non dobbiamo – abbandonare quelle popolazioni lasciandole all’indifferenza. È un dovere che sentiamo di avere nei confronti di tutti coloro per i quali ogni giorno ci spendiamo nel tentativo di garantire il diritto alla salute. È questa gente che ci chiede di restare, di non andare lasciandola sola, perché da sola non potrebbe farcela.
La settimana scorsa sono partiti per la Sierra Leone due nostri operatori: il dottor Giovanni Putoto, responsabile Programmazione di Medici con l’Africa Cuamm e il dottor Matteo Bottecchia, con funzioni di assistente al capo progetto. Ma sono partiti con preoccupazione ma anche con la consapevolezza che solo l’impegno, la continuità e la determinazione può vincere una battaglia come Ebola.
Così Giovanni Putoto descrive il clima:
È come un’ossessione insopprimibile che non ti abbandona e non ti dà pace. Non la vedi, ma è dappertutto che ti insegue e ti perseguita. È l’epidemia dell’Ebola che ha sequestrato le vite e le menti della gente della Sierra Leone. I dati si rincorrono uno dopo l’altro e sono sempre più negativi. I casi di Ebola aumentano anche se in uno stato di perfetta equità. Non ci sono disuguaglianze sociali, di genere o di generazione in questa malattia. Le vittime sono lo specchio dell’umanità di sempre: uomini e donne, bambini e anziani, laici e chierici, ricchi e poveri, contadini o abitanti delle città. In una dimensione esistenziale che non è più la stessa di prima, tutti indistintamente cercano un segno di speranza, un segno positivo, una prospettiva semplice: tornare ad una vita normale, dignitosa, pacificata con la natura. (6 ottobre 2014 18.53)
È fondamentale, soprattutto ora, rafforzare il lavoro del team e la sua presenza a fianco della gente e dei colleghi locali. La gente ha paura, è sempre più chiusa in se stessa, nelle case, nei villaggi. Non è facile raggiungere le persone e far capire loro come sia giusto affrontare questa emergenza, come non è facile garantire in modo adeguato e costante tutto ciò che manca.
Ecco come si è presentata Freetown, la capitale della Sierra Leone, agli occhi del nostro operatore Matteo Bottecchia appena arrivato nel Paese:
È un paese disorientato quello che accoglie il nostro arrivo, in un aeroporto deserto. La presenza di Ebola si legge fin dai primi passi fuori dall’aeromobile, accolti da acqua clorinata per lavarsi le mani, materiale informativo sull’infezione, check point sanitari appena dopo i controlli doganali. La macchina della prevenzione al primo impatto pare ben rodata, funzionante, ma resta nell’aria una sensazione d’attesa, di timore e incertezza. Freetown è scossa dal consueto ritmo frenetico delle grandi città africane, martellata dai clacson e dalle grida dei passanti. Tra queste si distinguono cori ritmici, distanti; il suono si fa più forte mano a mano che il gruppetto si avvicina, una dozzina di ragazzi che risalendo una grossa strada poco illuminata gridano una melodia, un inno, intimano ad Ebola di andarsene, di lasciare il loro Paese e far tornare la pace tra la gente. C’è in quel coro un moto di grande speranza, voglia di combattere a viso aperto la piaga che sta martoriando la Sierra Leone e i Paesi limitrofi, ma anche un’ammissione di impotenza. Sono parole che intimano, ma anche chiedono, a Ebola di abbandonare questa terra. L’infezione ha trovato una breccia tra le ferite di un Paese sovrastato da problemi profondi, con un sistema sanitario fragile e impreparato ad un compito così grande come combattere quest’epidemia senza precedenti. Sono donne e uomini forti e motivati quelli che stanno portando avanti la quotidiana battaglia contro il virus, ma ogni giorno si confrontano con enormi difficoltà tecniche, specialmente nelle aree più periferiche come Pujehun, dove le vie di collegamento tra una miriade di piccoli centri sparsi sul territorio sono al limite della praticabilità, e il materiale di protezione e trattamento per il Centro di Salute di Zimmi, il più vicino all’attuale focolaio d’Ebola, arriva solo attraversando il fiume Moa a bordo di una barca a remi. Sembra una lotta impari, quella tra la rapidità di diffusione del virus e la lentezza a cui si è costretti anche per fornire servizi sanitari di base. E il grande rischio è che l’apparente insormontabilità degli ostacoli porti rassegnazione, ovvero un’altra porta aperta per Ebola (6 ottobre 2014).
E mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità aggiorna i dati sulle vittime di Ebola in Africa Occidentale in un triste conteggio che porta a 3.439 i morti su un totale di 7.492 casi al primo ottobre, con la giornata nera di sabato scorso 4 ottobre che ha registrato 121 morti e 81 nuovi casi in sole 24 ore, qualche segnale di speranza arriva proprio da Zimmi, dove anche grazie al vostro aiuto è stato fatto un grande lavoro.
Il centro di Zimmi che continua ad essere quello più colpito dalla epidemia è stato visitato ieri – riposta Giovanni Putoto. Ha due pazienti ricoverati nel blocco principale, una donna positiva e un ragazzo in attesa di conferma del test. Gli altri due pazienti, risultati positivi, sono stati trasferiti a Kenema. Una paziente deceduta è stata tumulata in una zona sicura. Abbiamo visitato il centro e l’abbiamo trovato pulito e ben organizzato. E’ stata rimossa la pompa manuale ed installata una pompa ad immersione, installati 2 tank per l’acqua e ora l’acqua arriva sia al vecchio centro di salute che al centro di isolamento con rubinetti esterni. Sono stati fabbricati 1000 blocchi di cemento. Ora c’è acqua corrente e i pazienti ricevono correttamente i pasti. Il trasferimento da Bo dell’ultimo carico di cemento e tubi è stato molto complicato a causa delle pessime condizioni delle strade, ma a giorni saranno terminati anche toilette e inceneritore. Lo sforzo logistico è stato considerevole. Abbiamo incontrato il personale e le autorità locali che hanno espresso apprezzamento per il lavoro fatto.
Medici con l’Africa Cuamm continua dunque a sostenere i due centri di isolamento: uno nell’ospedale di Pujehun, l’altro a Zimmi, una delle aree focolaio. Qui è necessario continuare ad assicurare, senza mai abbassare la guardia, medicinali, strumenti di protezione (mascherine, guanti, occhiali, stivali, grembiuli, clorina), ma anche gasolio, telefoni, cibo, acqua, materiali per costruire.
Sentiamo nostre le parole di Giovanni nel suo ultimo messaggio:
Questo è quello che cerca di fare Medici con l’Africa Cuamm a Pujehun e a Zimmi dove le fiamme dell’epidemia continuano ad elevarsi, spavalde e minacciose. Ci siamo con la nostra presenza, il nostro aiuto tecnico e materiale, la nostra determinazione a non mollare. Il lavoro è molto e faticoso: pazienti Ebola da assistere in modo professionale e umano, personale sanitario da affiancare nelle sfide quotidiane, comunità impaurite da incoraggiare. Una speranza da costruire passo dopo passo, sfida dopo sfida, con loro.
Vi siamo grati per attenzione e il sostegno umano e materiale che continuate a esprimerci con grande affetto,
Un carissimo saluto
Don Dante Carraro
direttore Medici con l’Africa Cuamm
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