Carissimi,
un filo di luce in fondo al tunnel. Finalmente la conferma che l’uragano Ebola sta rallentando.
Non è finito e non si deve assolutamente abbassare la guardia, ma qualche segnale positivo sta giungendo. Pujehun, il distretto in cui siamo impegnati, è il primo del Paese a non avere nuovi casi da più di 40 giorni. Le istituzioni e le autorità locali cominciano a renderlo noto con evidente soddisfazione. La gente vive ancora la paura ma con un po’ di sollievo in più.
Tutti sappiamo che il maggior merito va alla “buona sorte”, ma sicuramente hanno contribuito anche il buon lavoro di squadra e le azioni intraprese. Siamo timorosi nel raccontare i buoni risultati perché il rischio continua ad essere elevato. E viene dall’esterno, dai distretti vicini in cui il virus persiste e da lì potrebbero arrivare nuovi casi. L’epidemia cammina con le persone. E cresce. In questi giorni ha oltrepassato la soglia dei 10.000 casi, quasi 2.000 in più rispetto alla Liberia.
L’azione di sorveglianza deve quindi continuare ed essere molto rigorosa e sistematica. E poi si devono mantenere aperti e rafforzare i servizi “normali”, le sale operatorie, i reparti, le visite alle gravide, le vaccinazioni, i servizi di ambulanza: tutto debolissimo già prima dell’Ebola. È una sfida da brivido ma la vogliamo affrontare, insieme.
E crescono le richieste di aiuto! Vi raccontavo del Nord-Ovest del Paese. Lunsar, Port Loko, Makeni: ospedali chiusi per le perdite e la paura. Il primo di questi vuole riaprire e ha bisogno di personale medico: invieremo a breve un chirurgo e un internista. Non abbiamo risorse ma non possiamo tirarci indietro. Quelle arriveranno. E poi il distretto di Kono, nel Nord-Est. Vi riporto una pagina del mio diario di viaggio prima del rientro in Italia.
“2 gennaio del nuovo anno. Sveglia alle 5,30, un caffè rapido e si parte. Da Pujehun 6 ore di Toyota, pista a prova di colonna cervico-lombare: destinazione Koidu, capitale del distretto di Kono, 320.000 abitanti. 200 casi di Ebola solo negli ultimi 3 mesi, fra i peggiori del Paese. Si racconta che sia il posto con più diamanti al mondo. E te ne accorgi subito quando arrivi. Una immensa muraglia, a ridosso della cittadina, alta trenta-quaranta metri fatta di pietre, quelle scartate, lunga tre, forse quattro, chilometri che protegge all’interno il tesoro, i grandi “buchi”, quelli delle pietre che contano. Al tempo di Ebola tutto è rallentato o chiuso, ad eccezione dei grandi affari, specie esteri. Verso mezzogiorno visitiamo l’ospedale. Un centinaio di posti letto, luogo modesto, tenuto in ordine, verande e reparti puliti. Pochissimo personale: due medici locali, di cui uno con il compito di direttore, e un po di staff.
Le mamme, sfidando la paura, continuano a venire, partoriscono e al bisogno si fa anche il cesareo, in qualche modo e con seri rischi.
L’Ebola è un nemico strano. C’è quella dei ‘centri di trattamento’, delle zone rosse, le “high risk area” altamente infettive, quelle in cui sei a contatto diretto con gli ammalati. Qui sai bene dov’è il virus. E c’è l’Ebola della ‘normalità’ quella che ti colpisce di spalle, che non ti aspetti, che cammina vicino a te e non lo sai. Sono i rischi di quando lavori in un reparto o in una sala operatoria ‘normale’, di un ospedale ‘normale’, di quelli che incontri in tante zone rurali della Sierra Leone e dell’Africa in genere. Basta un caso sospetto non identificato, sfuggito all’ingresso dell’ospedale (area del triage, che a Koidu ora è gestita dalla Croce Rossa) e ti ritrovi il virus in casa senza saperlo, come un terrorista, e ti uccide! Nell’ultimo trimestre dieci operatori sanitari locali sono caduti in questo modo in o spedale. Con Enzo che mi accompagnava, abbiamo sostato, in preghiera. L’ospedale adesso arranca e fa fatica, più del solito. Ha bisogno di aiuto, specie in maternità e pediatria. La matron, 120 chili di peso e di passione per la propria gente, prima di andar via, salutandoci con un bel sorriso africano, ci fissa e ci invita: “we are waiting for you, soon!“. Non siamo specialisti di Ebola. Siamo, come talvolta ci dicono, ‘bush-doctors’, medici da campo. Aiutare un ospedale rurale a riprendere con coraggio la vita quotidiana, assistere mamme e bambini a fianco dei colleghi locali, anche e soprattutto quando il rischio è maggiore, questo lo sappiamo e dobbiamo fare. È la nostra vita, il nostro lavoro. Quella richiesta è rivolta proprio a noi! E ci interroga!”.
Faremo un passo alla volta. Ma sentiamo una spinta viscerale ad essere vicini a colleghi, gente e amici che ci sono diventati cari.
Un abbraccio dal Sud Sudan.
Don Dante Carraro
direttore di Medici con l’Africa Cuamm
Leggi anche il nostro blog “Diario da Ebola” on line sul sito di Rainews24
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