Dio solo sa con quanta fatica ho chiuso tutte le mie paure e i miei sensi di colpa nel cassetto prima di riuscire a prendere questo aereo. Io, sposa e madre di due creature ancora piccole con alle spalle un solo grande viaggio intercontinentale: il mio viaggio di nozze. Eppure sono riuscita a partire. Mi aveva messo a disagio la domanda di un pacifico collega dell’ospedale di Padova, dove da anni lavoro: «Perché vai in Africa?». Già ,perché?
«Per vedere una realtà diverse» ho risposto, cercando di concentrare in due parole una ragione profonda che non avevo ancora veramente sondato. «Perché servo proprio io in Africa con tutti quelli che ci operano da anni, poveri e malati ci sono anche qui in fondo!». Con me stessa devo portare pazienza perché capisco le cose lentamente e così lascio che durante il viaggio mi risuoni in testa questa biblica domanda: Ma che cosa siete andati a vedere nel deserto?
All’arrivo a Tosamaganga, Tanzania, l’impatto è forte, ma ero preparata: la rassegnata sofferenza delle madri, l’ingiustificabile dolore dei bambini, la frustrante povertà della gente, la mancanza di risorse. Ma allora, che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? No. Che cosa allora? Un uomo vestito con abiti di lusso?
In ospedale, resto sola in sala parto, il posto dell’ospedale che più amo. Un’ampia e luminosa stanza con tanti letti affiancati, separati solo da leggere tendine gonfiate a tratti da una brezza tiepida che entra libera dalle finestre aperte. Mi colpiscono il silenzio e la calma, nonostante le doglie del parto, la mancanza di privacy e il frenetico lavoro delle due ostetriche; mi colpiscono la discrezione nei loro gesti, la calma, la lentezza del tempo che passa, la luce e il cielo immobile fuori dalle ampie finestre. Respiro a pieni polmoni. Che pace! Che sollievo! Questo non me l’aspettavo, abituata alla frenesia del lavoro nei nostri ospedali, alle finestre piccole e alle porte chiuse, preparati più alla difesa che all’accoglienza, arroccati a garantire una privacy più certificata che interiorizzata, trincerati ormai contro le continue lamentazioni e insoddisfazioni del personale e dei pazienti. Che pace! Ma allora, che cosa siete andati a cercare nel deserto?
C’è una giovane donna in travaglio, Agrippina. Mentre le massaggio la schiena e le gambe, penso a come sono belle e forti queste donne africane, abituate a soffrire in silenzio in modo umile e dignitoso, accettando nella loro semplicità il mistero dell’ineluttabilità della sofferenza. Sorriso-dolore-respiro e ancora respiro-dolore-silenzio. Il tempo passa tra una contrazione e l’altra e lei, ad un certo punto sente di dover restituirmi qualcosa; prende fiato e comincia a recitare in italiano :« Uno, due, tre, quattro, cinque» ( i numeri sono le uniche parole che conosce nella mia lingua). Rido sorpresa e a mia volta mi sforzo di tirare fuori almeno un “Moja”(uno) in kiswahili. La sua risposta è un bellissimo sorriso di gratitudine che mi commuove. Ma si blocca: ora arriva veramente forte il dolore-dolore-respiro-respiro-dolore e finalmente ancora il sorriso. Mi insegna a contare fino a cinque in swahili, ripeto e riprovo.
Nasce Chiara, la sua prima bimba. Che gioia! La “mia” prima bambina africana.
Con commozione penso a quanto è bello il mio lavoro (qualche volta a Padova me lo dimentico); penso all’amore che regna in sala parto (ma perché a Padova in mezzo al fragore della frenesia quotidiana faccio così fatica a sentirlo?), alla fortuna di essere QUI, in capo al mondo, paradigma di ogni parte del mondo, in questo ospedale come in ogni ospedale, in questo tempo come in ogni tempo, a riscoprire il piacere puro del rapporto con l’ALTRO, ad assaporare in pace il gusto di una piccola vita che nasce e riesce, col rispetto dei suoi tempi naturali, a commuovermi ancora come al primo parto, come alla prima nascita sulla terra.
E allora finalmente, comincio a capire la risposta alla mia incessante domanda: Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Ve lo dico io: qualcosa di più che un profeta.. Eppure, il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui ( Mt 11,7-11).
Chiara Alessi