Io e Valeria siamo arrivate in Uganda di sera. Abbiamo alloggiato inizialmente a Kampala, la capitale, per poi spostarci all’ospedale di Aber.
Lì ci hanno lasciato molta libertà, fin dall’inizio. Non ci avevano dato orari e turni, così abbiamo potuto trascorrere tutto il tempo in Sala Parto, dall’inizio alla fine della giornata. All’ospedale di Aber funziona così e proprio per questo l’esperienza è stata davvero molto formativa. Aver avuto la possibilità di stare in Sala Parto per così tanto tempo mi ha permesso di vedere e di agire, e di conseguenza di imparare molto.
Il lavoro dell’ostrica in Uganda è un po’ diverso rispetto alle modalità a cui siamo abituati in Italia. Qui le pazienti non sono assistite durante il travaglio, come invece si fa in Italia, ma vengono accolte presso l’ospedale e fatte attendere fino a quando arriva il momento del parto. Solo in quel momento la paziente viene accompagnata in sala e assistita direttamente, motivo per cui un po’ sentivo la mancanza di quel rapporto di vicinanza con la futura mamma che si crea durante l’attesa.
Su questo aspetto io e Valeria abbiamo cercato di lavorare portando la nostra esperienza italiana. Anche se le nostre pazienti non parlavano inglese, ma una serie di lingue locali tra le più disparate, abbiamo cercato di instaurare un dialogo con loro che andasse anche fuori dalle mura della Sala Parto. Grazie ai gesti e ad alcune persone che ogni tanto facevano da interpreti siamo riuscite a guadagnarci la fiducia delle neo-mamme, tanto da diventare un punto di riferimento per diverse di loro. Durante i giorni del ricovero dopo il parto è stato bellissimo vedere come queste donne ci venissero a cercare per mostrarci i nuovi nati e ringraziarci, ci sentivamo parte della loro comunità.
Una cosa che ricordo con particolare affetto è l’accoglienza di questo paese. Anche se ci siamo dovute reinventare, perché in Uganda le cose non funzionano come in Italia, le ostetriche del luogo sono sempre state disponibili e curiose nei nostri confronti. Del loro lavoro ricordo bene la necessità di intervenire, che mi spiegavano essere dettata dalle scarse tecnologie a disposizione. Inizialmente non è stato facile accettare questo modo di lavorare, mi sembrava di essere tornata all’Ostetricia degli anni Trenta. Poi ho capito che era l’unico modo per poter fare questo lavoro nel contesto di Aber.
Penso di aver fatto davvero un’esperienza bellissima, non la cambierei. E sto già pensando di tornare.
Marina Franchi è una studentessa di Ostetricia dell’Università di Firenze. Nel 2017 è partita per l’Uganda per un periodo di tirocinio nell’ambito dell’accordo stipulato tra Cuamm e Federazione Nazionale Collegi Ostetriche (FNCO) lo scorso maggio.