«Ho vissuto per un anno qui dentro, quando ancora era una piccola struttura poco frequentata» mi rivela Giada. Il Test and Treat in Tanzania è partito infatti con un progetto pilota in un piccolo dispensario che non era ancora riuscito a farsi riconoscere lo status di centro di salute. Allora la strada principale tagliava in due il complesso, ma in breve le costruzioni sono aumentate tanto che è stato necessario deviarne il percorso. In tempi sorprendentemente rapidi, grazie al Cuamm sono state costruite la nuova radiologia, ampliato un laboratorio da due a cinque stanze, realizzata una nuova hall per la sensibilizzazione, una grande struttura con reparti, mentre la clinica per le attività dedicate all’Hiv è passata da tre a otto ambulatori. È stato inoltre ricavato lo spazio per la sala operatoria – l’ultimo tassello che manca per richiedere lo status di “ospedale” – e sono stati montati alcuni pannelli fotovoltaici, così parte del complesso oggi è autonomo per l’erogazione della corrente.
Nell’ottobre del 2016 il centro è stato inserito nel percorso della Uhuru Torch, una torcia che ogni anno attraversa la Tanzania trasportata da sei militari di corsa. La torcia vuole essere simbolo di speranza e fiducia nel futuro e sosta nei siti più significativi e all’avanguardia del paese, come apprezzamento per il buon lavoro svolto.
«Ecco Atim!» esclama Giada alzando un braccio per farsi notare. Guardo nella sua direzione e mi stupisco nel vedere una giovane donna occidentale che ci viene incontro rispondendo al saluto con una mano.
«Andate pure a casa mia» ci invita dopo una veloce presentazione, «vi raggiungo subito».
Ci muoviamo tra pazienti che bivaccano su teli colorati stesi all’ombra degli alberi. Superiamo alcuni operai impegnati con carriole e attrezzi e, poco distante dal cantiere in costruzione, troviamo una donna che, seduta sulla sabbia, frigge i mandazi, morbide frittelle salate che acquistiamo per colazione.

«Sono l’unica espatriata, sto bene» racconta Atim, aprendo una bottiglia di succo di mango da offrirci. Siamo nel soggiorno di casa sua, un ambiente semplice che ha saputo rendere accogliente. «Sono arrivata a settembre che non sapevo lo swahili, in pratica mi hanno fatto affiancamento i locali» scherza. Atim parla poco e ho subito l’impressione di essere davanti a una persona che vorrei avere più tempo per conoscere.
«Non abbiamo ancora la sala operatoria» racconta, riferendosi al centro di salute che la ospita, «ma già così riusciamo ad assicurare i ricoveri e ad assistere i parti normali. Serviamo un bacino di utenza di quasi 80.000 persone» spiega con orgoglio.
Il centro di Bugisi è privato non profit, di proprietà della diocesi di Shinyanga, ma una parte del costo dei servizi è a carico del paziente. Grazie all’aiuto del Cuamm, però, le persone ricevono un aiuto economico per i servizi a cui accedono. «È un servizio importante» prosegue Atim «perché la componente economica è una barriera. Se non è piovuto, se non si è raccolto abbastanza riso, ad esempio, la gente non viene. Oppure viene e poi non ha la possibilità di prendere le medicine».
Le chiedo l’origine del suo nome dal sapore così esotico e mi racconta di essere nata in Uganda. In lingua locale Atim significa “nata lontano da casa”.

Atim Molinari a Lacor, in Uganda, nel 1987

Atim Molinari a Lacor, in Uganda, nel 1987

«Mio padre è partito come medico Cuamm nel 1975, approfittando della legge sul servizio civile, e due anni più tardi sono nata io». I genitori di Atim rimasero nell’ospedale di Gulu Lacor fino al 1978, ben oltre il periodo previsto per assolvere gli obblighi di leva. «Siamo stati costretti a lasciare il paese perché Amin era al colmo della sua follia» spiega, riferendosi a Idi Amin Dada che fu presidente dell’Uganda tra il 1971 e il 1979 e uno dei più violenti dittatori che l’Africa abbia conosciuto.
«Siamo poi tornati a Lacor nel 1985» prosegue Atim «restandoci per altri due anni. È stato senza dubbio il periodo più bello della mia vita: se penso a ricordi cari, penso alla mia infanzia in Uganda». Unica bianca, unica donna in un collegio maschile, Atim poteva contare sul supporto di un fratello e di una sorella che erano nati nel frattempo. «Non c’era molto da fare per noi bambini» spiega. «Ricordo che quando arrivavano i container con il materiale per l’ospedale e dentro ci trovavamo anche i regali della nonna era una grande festa. Avevamo una buca con la sabbia, giravamo in bici per tutto il compound, c’era un’altalena e addirittura la piscina. È stato in Uganda che ho imparato a nuotare».
Rimane in silenzio un attimo, poi prosegue: «Mi piaceva molto andare in lavanderia a parlare con le donne, tenere in braccio i loro bambini» confessa, allungando una mano verso il sacchetto con i mandazi.
In quegli anni, però, il paese non era altrettanto sereno. Anche dopo la caduta di Amin proseguirono contese e guerra civile. «C’erano i posti di blocco per andare a scuola, i bombardamenti nella notte» ricorda lei. «Nel 1987 i miei genitori decisero quindi di tornare definitivamente in Italia».

Uscendo di casa chiedo ad Atim da dove provenga la sua famiglia. La “zeta” arrotondata e la cadenza gentile mi suggeriscono una risposta che lei conferma: «Prima di partire lavoravo come infettivologa a Parma, ma i miei genitori vivono a Berceto, sull’Appennino tosco-emiliano» racconta. «La mia famiglia gestisce fin dall’Ottocento il bar-ristorante che c’è al passo della Cisa».
Atim parla volentieri di casa. Lago Santo, Groppo del Vescovo, lago Bozzo: basta evocare pochi nomi per portarci al fresco dei boschi.
«Arrivare a Bugisi è stato un piccolo shock» ammette. «Quando pensavo all’Africa ricordavo il verde, la vegetazione rigogliosa dell’Uganda. A Bugisi invece ci sono terra, polvere e sassi. Il problema è che sono partita piena di aspettative, e non è mai saggio farlo». Sorrido senza aggiungere altro, pensando alla salda concretezza della gente dell’Appennino.
«Adesso però sto bene anche qui» si riprende in fretta. «E devo ringraziare le persone del posto».
Giada, che cammina accanto a noi, non trattiene una risata: «Solo Atim avrebbe potuto dire una cosa del genere» commenta divertita.
Mi spiegano allora che questa zona è abitata dai Wasukuma, la popolazione più numerosa a Bugisi, che però è considerata fra le più scontrose di tutta la Tanzania a causa del modo deciso e imperativo di parlare. Come se non bastasse, il centro di salute è famoso anche per la figura di Sister Emanuela, la suora a capo della struttura, una nigeriana volitiva e decisionista. Sister Emanuela non ha la qualifica di medico eppure ha un ruolo superiore a quello di Atim che, dunque, deve fare riferimento a lei per ogni decisione.
«È vero, è una persona dai modi spicci, ma è anche molto efficace e io mi ci trovo bene» ammette Atim. «Per la maggior parte del tempo sto zitta e ascolto i colleghi e i pazienti. Poi, se vedo la necessità di cambiare qualcosa, ne parlo con loro, valuto le loro idee, i loro suggerimenti. Così ogni cambiamento è più sensato, più facile».
Quando arriva il momento di ripartire salutiamo Atim con la promessa di rivederci in Italia. «Magari alla Cisa» si augura lei. «Oggi è la festa del paese, saranno tutti alla sagra» dice come tra sé, e riconosco appena una punta di nostalgia nella sua voce.

Trent’anni più tardi, Atim nel centro di salute di Bugisi, Tanzania, fotografata da Chiara Arturo (2017)

Trent’anni più tardi, Atim nel centro di salute di Bugisi, Tanzania, fotografata da Chiara Arturo (2017)

Per approfondire

Il 15 dicembre 1971 veniva proclamata la prima legge italiana sulla cooperazione con i paesi in via di sviluppo grazie al contributo fondamentale di Medici con l’Africa Cuamm che si spese anche perché il servizio civile fosse riconosciuto come alternativa a quello militare.

Idi Amin Dada fu presidente dell’Uganda tra il 1971 e il 1979. Passato alla storia come uno dei dittatori più spietati che l’Africa abbia mai avuto, i racconti che lo riguardano hanno sempre sconfinato nella leggenda: di lui si diceva, ad esempio, che fosse così disumano da mangiare il fegato dei nemici sconfitti. Sono tremendi e reali, però, i morti di cui è responsabile per persecuzioni politiche e razziali, con stime che vanno da 80.000 a 300.000 persone. Parte della biografia di Amin è raccontata nel film L’ultimo re di Scozia.
Nel 1978, quando la famiglia di Atim rientrò in Italia per la prima volta, Amin era ormai fuori controllo, perso in un’ossessione personale di paranoia e autocelebrazione. In quegli stessi mesi, grazie alla testimonianza del suo ministro della sanità fuggito in Inghilterra, l’Occidente scopriva per la prima volta che il presidente ugandese, considerato fino a quel momento niente più che una macchietta eccentrica, era in realtà un dittatore sanguinario. Nell’ottobre ordinò l’invasione della Tanzania tentando di annettere la regione del Kagera. La Tanzania era guidata da Julius Nyerere, padre fondatore del paese e statista illuminato, che organizzò un contrattacco sostenuto anche dagli esiliati ugandesi riuniti nell’Uganda National Liberation Army. La guerra fu molto breve e il dieci aprile dell’anno successivo l’esercito tanzaniano entrò a Kampala, la capitale dell’Uganda, costringendo Amin all’esilio. Lo scrittore polacco Rizard Kapuscinski, concedendo forse un po’ al romanticismo, racconta che le perdite per la Tanzania ammontarono unicamente a un carrarmato.

La regione del Kagera ha un significato particolare anche per Medici con l’Africa Cuamm e per il Test and Treat: proprio qui, infatti, tra il 1984 e il 1985 i medici dell’organizzazione avrebbero individuato il virus dell’Hiv per la prima volta in Tanzania e, pare, in tutta l’Africa.

Dopo la destituzione di Amin, il paese non ritrovò comunque la serenità. Milton Obote, tornato al potere dopo gli otto tremendi anni di dittatura, alimentò nuove violenze con vendette e uccisioni di massa. Nel 1985, quando la famiglia di Atim tornava in Uganda, Obote era appena stato destituito e il paese era conteso tra i rappresentanti di diversi gruppi etnici o religiosi. Tra questi si ricorda soprattutto la “Forza mobile dello Spirito Santo” di Alice Auma Lakwena, conosciuta come “la strega del nord”. In un delirio di visioni mistiche e onnipotenza (era convinta di avere poteri sovrannaturali), nel 1987 passò il testimone a un presunto cugino, Joseph Kony. Quest’ultimo fonderà il proprio movimento, l’Esercito di salvezza del Signore, che legherà il suo nome al problema dei bambini soldato: tra il 1987 e il 2006 ne arruolerà circa 2.000. Sulla figura di Kony è stato girato un popolare e controverso documentario dal titolo Kony 2012.

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