Carissimi,
insieme alle notizie sul Sud Sudan che vi ho inviato la scorsa settimana mi fa piacere trasmettervi anche quelle che ci arrivano da Alessandra, chirurga all’ospedale di Lui.
A lei e a tutto lo staff Cuamm, internazionale e locale, impegnato sul campo a fronteggiare la fame complicata dalla situazione di instabilità, vanno la mia, e voglio immaginare anche la vostra, gratitudine. Essere “con l’Africa” significa anche questo: restare accanto, farsi prossimi nel condividere un’esperienza che in alcuni momenti può essere anche di dolore e sacrificio, nella convinzione che esserci può fare la differenza tra la vita e la morte per tante, tantissime persone.
Per continuare a farlo, contiamo sul vostro aiuto!
Grazie
don Dante
Una testimonianza dall’ospedale di Lui in Sud Sudan
Il villaggio di Lui, e tutto lo Stato di Mundri West, analogamente a quasi tutto il Sud Sudan, soffre la fame. A Lui la situazione è aggravata dallo stato di insicurezza che paralizza gli spostamenti e il commercio. Le strade non sono sicure, le aggressioni e le rapine sono ormai all’ordine del giorno. Sempre più frequentemente giunge voce di persone, anche tra gli infermieri del nostro ospedale, che sono state assalite e derubate di tutto nelle loro abitazioni. Non si tratta quasi mai di azioni di militari, ma di singoli individui spinti dalla miseria e dalla fame.
La maggior parte della gente non ha reddito e mentre prima si riusciva a rimediare qualcosa con poco, ora non è più così. Il mercato è vuoto, da Juba non arrivano più prodotti perché percorrere le strade, specie con generi alimentari, è estremamente rischioso. Non si trova quasi più nulla da mangiare, i prezzi triplicano di giorno in giorno a causa della svaluta della moneta locale rispetto al dollaro.
I soldati di stanza qui a Lui per mantenere l’ordine e garantire la sicurezza, non ricevono il salario da mesi, sono senza un soldo, magrissimi e affamati. Quando vengono ricoverati per ferite da arma da fuoco, chiedono regolarmente di ritardare la dimissione per poter restare a riposare in ospedale e mangiare qualcosa.
Ora che è iniziata la stagione delle piogge la gente inizierebbe a coltivare la terra, ma quest’anno la maggior parte teme che il frutto del loro lavoro sia spazzato via dal conflitto come successo l’anno scorso. Non coltivare, aggrava la situazione.
Anche in ospedale vi sono ripercussioni: non solo sta aumentando il numero dei bambini gravemente malnutriti, ma, purtroppo, in modo allarmante, anche quello dei ricoveri nel reparto di medicina adulti per tubercolosi, una malattia che si accompagna costantemente alla miseria e alla fame. Nel reparto di pediatria, in precedenza le mamme arrivavano in Ospedale con il loro sacchetto di riso e fagioli, ora a mani vuote e senza un soldo. I pazienti dimessi, in attesa del trasporto per tornare a casa (soprattutto quelli che abitano lontano, perché nessuno si arrischia più a percorrere le strade a piedi col timore, giustificato, di essere assaliti, picchiati e rapinati) stazionano nelle verande dell’ospedale anche per alcuni giorni senza nulla da mangiare. Spesso ci chiedono se possiamo dare qualcosa ai loro bambini. L’ospedale dovrebbe e potrebbe fornire cibo solo alle categorie più vulnerabili (donne gravide e puerpere, bambini malnutriti, pazienti TB o HIV +), ma a questo punto lo stiamo dando praticamente a tutti.
Anche il rifornimento di farmaci per l’ospedale ormai è interamente sulle nostre spalle. Fino a un paio d’anni fa, un camion del ministero arrivava due volte l’anno carico di medicinali e materiali per la sala operatoria e le medicazioni, ora non più.
La situazione è drammatica e quello che spaventa di più è il fatto di non riuscire a intravedere prospettive di miglioramento. Il diritto alla vita, alla salute, alla sicurezza, qui non esiste; lo leggi negli occhi rassegnati delle madri che non hanno nulla da mangiare per i propri figli, ma anche in quelli disillusi dei soldati che non sanno più perché combattono e muoiono lontano da casa, senza salario e cibo, ragazzi sempre affamati alti come pertiche e magri come stecchi.
Alessandra, chirurga Cuamm all’ospedale di Lui, Sud Sudan
3 maggio 2017