Nel mio lavoro incontro moltissime persone

È inevitabile. Da un po’di tempo ho provato a guardarle in un modo diverso, cercando di capire, dai loro sguardi, cosa pensavano dovendo presentare un problema di salute a me, uomo bianco e chirurgo. La risposta più ovvia, stando male, era quella di essere guariti; ma le risposte superficiali sono sempre poco interessanti. Vorrei piuttosto chiedere: cosa è per te una malattia? Cosa senti quando sei in cerca di una risposta ad un problema che ti coinvolge più o meno profondamente? Forse vorrei concludere senza troppi giri di parole: cosa pensi?

E’ molto difficile mantenere una posizione di distanza, non invadente, rispettosa, quando sei là a guardare, ascoltare, toccare i corpi dei malati. Già ponendomi domande come quelle sento che entro in quell’area privata che non siamo sempre disposti a condividere.

D’altra parte, il chirurgo ha una posizione molto diversa da quella del medico. Per sua formazione è aggressivo. Se decide che deve prospettare un intervento sa che il suo rapporto con il malato diventerà, in un certo momento, un corpo a corpo inevitabile, violento, viscerale.

Quello che dovrai prendere con le mani è quanto di più privato appartiene ad una persona: il proprio corpo.

E tu lo incidi, lo tagli, lo spezzi, lo riunisci e devi essere capace di farlo senza che quello che tu tocchi sia per te solo tessuti e carne, visceri e ossa. È vita che pulsa e sanguina, che si dibatte per esistere ancora, che ti si affida per essere aiutata a guarire. Nello stesso tempo devi essere così distaccato da fare il tuo lavoro con un atteggiamento libero da emozioni, non coinvolto, capace di portare la sofferenza ma anche di dimenticarla un minuto dopo, in grado persino di sopravvivere alla morte di chi tenti di curare e questo, tante volte, è una tua piccola morte.

Sei anche consapevole che tutti questi pensieri te li devi portare dentro senza che il loro peso sia percepito da chi ti sta guardando. Alla fine, se sei un chirurgo, dovrai imparare ad essere un uomo che è solo, profondamente solo. Anche quando si insiste nel concetto di “lavoro in équipe”, chi lo afferma dovrebbe sapere che nel momento chiave della professione, quando qualcuno deve prendere una decisione e deve aver la forza di portarne fino in fondo tutte le conseguenze, non c’è nulla che possa esorcizzare la solitudine più profonda.


 

Ho cominciato a guardare i volti e gli occhi dei miei malati

Sono infiniti. Da quelli dei bambini, che spaziano tra il terrore di essere di fronte ad un uomo di un colore diverso, con tanto di baffi e occhiali, come in una maschera, a quelli dei maschietti già più grandicelli, consci del loro ruolo incipiente di piccoli guerrieri, quasi sfrontati, che si sforzano di essere areattivi mentre sopportano il dolore fisico, a quello delle ragazzine che ammiccano con una femminilità che non è ancora condizionata dalla durezza dei costumi locali.

Da quello della donna che è là per partorire, che si torce in smorfie silenziose, senza un lamento; a quello dell’anziano penetrante, indagatore, incorniciato da labbra serrate, indurito da prove senza numero.

Alcuni sguardi ti restano incisi nella memoria più di altri: uno, che mi fa sempre molta pena, è quello di un giovane pastore-guerriero, arrivato con una gamba massacrata da una ferita accidentale curata in una maniera così inappropriata da avergli fatto perdere tutta la copertura anteriore delle ossa e dei muscoli. Al momento dell’ingresso aveva uno sguardo di sfida, col mento appena sollevato, come a dire “vediamo cosa sapete fare, qua”.

E’ con noi da due mesi, sta andando lentissimo, ma con continui piccoli progressi, avvicinato solo dagli amici, aitanti come lui, che ogni tanto lo vengono a trovare. So quanto a questi uomini costi lasciare le mandrie che ora sono in trasferimento verso i pascoli del tempo delle piogge; vengono per qualche giorno a trovare il loro amico con una solidarietà quasi da militari e poi ripartono per chissà dove, avendo accuratamente calcolato il rischio che una razzia possa trovare il gruppo sguarnito e meno difeso.

Questo giovanotto ha capito che non ce l’avrebbe fatta ad essere con loro e che dovrà restare ancora molto a lungo a Matany. Il volto, giorno per giorno ha perso la sua alterigia ed i contorni si sono addolciti, arrotondati, come i muscoli mimici si rilassavano e sembra quasi diventato un po’ più bambino. Anche gli occhi, sempre inquietanti, hanno perso parte della loro durezza e benché le parole siano sempre poche, sembra voler chiedere (ma non lo farebbe mai) un po’ più di attenzione mentre gli passiamo davanti nei pochi secondi che si possono dedicare a ogni paziente. Si guarda sempre la vasta ferita e rialza lo sguardo senza fare commenti, come fosse una cosa non sua.

Sarò io che mi rammollisco negli anni ma questo guerriero umiliato dalla malattia mi fa quasi un po’ di tenerezza e ogni volta che sono davanti a lui cerco di farmi tradurre qualche parola di incoraggiamento, spiegando come lo stiamo guarendo un po’ giorno per giorno e quali saranno i successivi passaggi. Poi l’infermiera gli abbaia con violenza qualcosa in Karimojong con un tono che farebbe venire la pelle d’oca a chiunque che non sia di qua, ma che qui suona come un “dai che la ferita va bene!” e dobbiamo passare avanti. Con la coda dell’occhio ho creduto di vedere un guizzo di sollievo? di incredulità? di speranza? E’ difficile pensarlo. Forse ho solo voluto vederlo.


 

Altro paziente, altro volto, altri occhi

Un vecchio Turkana, operato di una grave condizione emorragica della vescica mi ha tenuto sotto il suo sguardo attento per tutta la degenza, ogni volta che passavo, con la stessa impassibilità, con la stessa immobile maschera rugosa, con gli stessi occhi socchiusi. Dovendomi fermare spesso per le medicazioni ho approfittato per guardarlo a mia volta negli occhi. Ho avuto la percezione inquietante di vedere un alieno. Occhi insospettabilmente chiari.  Nessuna risposta visiva al mio sguardo ma neppure indifferenza. Impossibile interpretare alcunché anche perché non ha mai pronunciato una sola parola (nonostante i Turkana e i Karimojong siano cugini e capiscano l’uno la lingua dell’altro). Nessuna domanda, nessun commento.

Una delle sue mogli invece, di media età, incastrata nelle sue enormi collane che le sollevano la testa dalle spalle, quando ha saputo che lo dimettevamo guarito mi ha dato la mano. Sguardo vivace, volto dai lineamenti più affilati e sfuggenti, vera nilotica del Nord del Kenya, una pelle opaca e polverosa come chi vive nella savana da una vita. Una coperta colorata che la avvolgeva cominciando dalla spalla destra e che copriva una tunica vivacissima e raramente lavata. Un forte odore di selvatico e di mandrie.  Un sorriso dai denti bianchissimi e ben conservati. “Alakara nuit” – “Grazie”. Ed è stato tutto. Si è girata e ha seguito il marito verso l’uscita. Non ci siamo più visti.


 

Il bambino che non riconoscevo più

Un mese prima era afflosciato, un testone che contrastava col corpo emaciato, 2 anni e malnutrito che si pensava avesse anche la tubercolosi; occhi abbandonati, ognuno che si arrovesciava con un diverso angolo girando verso l’alto come se stesse entrando in coma ad ogni momento. Pallore torbido della cute che dovevamo medicare là dove la pelle non aveva più fiato da restare intatta.

Era venuto per un ultimo controllo chirurgico e mi domandavo chi fosse: tonico, sorridente, con gli occhi che esploravano tutti e tutto. Poi ho riconosciuto il testone che faceva da sostegno alle due lanterne. Era sempre lui, il malnutrito peggiore della pediatria ma con 3 chili in più. Dove li avesse messi non so, era ancora pelle e ossa ma i muscoli gli davano un’altra tonicità. C’era ancora molto da fare a soprattutto c’era ancora molto da mangiare ma ce l’aveva fatta. Un piccolo miracolo del programma di nutrizione per questi sfortunati bambini.

Vicino a lui una ragazzina di 10 anni aveva trasformato il suo volto serio di paziente modello in quello di una sbarazzina. Ogni volta che passavamo davanti a lei, da più di un mese, faceva come tutti i bambini ricoverati: scopriva dalla garza la profonda ferita della coscia attraverso cui avevo portato via una parte del suo femore corroso dall’osteomielite. Temevo che avrei dovuto chiuderla con un innesto cutaneo ed invece, risolta lentamente la suppurazione, la ferita piano piano si era chiusa da sola. “Vai a casa, sei guarita”. Avete mai visto una bambina sorridere? Lei era così, tutta uno scintillio. Non una parola naturalmente ma si torceva le mani per la gioia improvvisa: poteva camminare, avrebbe finito di curarsi facendo le medicazioni vicino a casa sua, era libera. Auguri, ragazzina e non tornare più.


 

Auguri a tutti voi, malati di Matany

Volti, occhi, silenzi della savana, caratteri spinosi come i vostri cespugli che rinverdiscono raramente.

Auguri a voi, pazienti dell’ultimo miglio.

Auguri da un chirurgo di frontiera che da voi sta imparando il silenzio, la capacità di guardare dentro e oltre e l’arte di vivere con voi in questi tempi lunghi, lunghissimi.

Tempi d’Africa.

Giorgio Pellis

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