Appena sceso dall’aereo l’impatto è stato shoccante: avevo visto diverse capitali di paesi in via di sviluppo, ma Juba è un’altra cosa. Le strade dove persino i Land Cruiser fanno fatica a passare, chiuse da mura alte, recinzioni con in cima il filo spinato degli edifici governativi o delle ONG che si alternano a tukul (abitazioni locali con i muri di fango) e baracche di lamiera. Strade in cui è vietato scattare foto senza un permesso e anche chi lo ha può correre il rischio di incappare in un’esecuzione sommaria, se fotografa qualcosa di “sbagliato”. Se uno vuole capire la diseguaglianza deve venire qui, mi dico. E allora mi tornano in mente le parole di Don Dante, che mi aiutano a rimettere le cose in prospettiva: “Cinque anni fa qui non era molto peggio, non c’era nulla”.
Poi ho lasciato Juba in direzione Lui, ho abbandonato l’unica strada asfaltata del paese e ho capito che non c’era altro posto dove volessi essere. Non ho mai pensato che la mia scelta fosse coraggiosa o difficile, doveva semplicemente essere presa, nonostante le sei ore di strade dissestate: sei ore per meno di 160 chilometri, su piste di terra rossa e fango. Una terra rossa che che ti copre, ti riempie i polmoni e ti colora, fuori e dentro. Una terra che quando cade tanta pioggia si trasforma in un fango denso, che imbratta i pick-up e i vestiti.
A Lui la vita non è difficile, se uno sa adattarsi. Il Sud Sudan, non avendo alcun tipo di industria, inclusa quella dell’agroalimentare, importa qualsiasi cosa. L’unica vera difficoltà sta nella monotonia del cibo: riso e fagioli a colazione, pranzo e cena. Con un po’ di fantasia però basta della carne ogni tanto, una pizza, o del pesce di fiume e si riesce a festeggiare, anche una o due volte al mese.
A volte il rapporto con le persone non è facile: all’inizio si viene percepiti come un corpo estraneo, che a poco a poco viene accettato dall’organismo. Anche con il passare del tempo, dopo qualche birra bevuta assieme e qualche partita a carte (qui si gioca a group of six, 10 centesimi di euro a partita), un buon rapporto si instaura, ma si continua a percepire una sorta di diffidenza, una certa estraneità dal contesto. Qui in Western Equatoria l’etnia dominante è quella Moru: gente pacifica, sempre gentile, con il sorriso stampato in faccia; gente fiera, come tutti i sud-sudanesi, e dedita al raccolto e all’allevamento. Venduti come schiavi dagli arabi almeno fino ai tardi anni ’90, sono spesso considerati l’ago della bilancia di questa guerra civile che si sta combattendo nel paese, sperando però che non decidano mai di armarsi. Perché loro, con fierezza appunto, ricordano il 1991, quando stanchi delle scorribande dei Dinka in città ne uccisero 1500, a fronte di solo un centinaio di perdite Moru.
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Ci sono anche cose difficili da accettare nell’atteggiamento dei locali: lo scarso impegno, le lunghe attese, l’esasperato fatalismo, un egoismo diffuso che le difficoltà non hanno mitigato, ma accentuato. Spesso però mi chiedo come avrebbero lasciato me e la mia famiglia 37 anni di guerra che non sembrano vedere fine. All’inizio, infatti, parlare con le persone mi lasciava un senso di disagio e non ne capivo il motivo. Ad un certo punto mi sono accorto che nessuno parla di futuro. Per i locali il futuro non è una cosa che si possa contemplare: non lo vedono, se lo facessero lo vedrebbero negativo, per cui preferiscono pensare solo al qui e ora. L’altro giorno, chiacchieravo con un collaboratore locale: “Ogni volta che vado a Juba – mi ha detto – penso a tutto quello che avrebbe potuto essere e non è stato: fa star male. Per questo qui nessuno pensa al futuro: l’unica cosa che porta pensare al futuro è un’ulcera!”.
Non è mancato nemmeno qualche momento difficile: la malaria; quando tornando a casa da una missione sono finito in un’imboscata e c’hanno sparato a colpi di Kalashnikov, lasciandomi mezzo sordo per qualche giorno. Poi c’è la mancanza cronica di risorse e farmaci da mettere a disposizione dei malati; vedere ragazzi con la metà dei miei anni spediti al fronte; essere evacuati dalla guest house dove dormiamo ed essere costretti a stare un mese all’interno dell’ospedale per le notizie di scontri tutto intorno a noi. C’è la mia futura moglie a casa, che mi manca ogni giorno di più; i miei genitori che hanno avuto un incidente in macchina mentre io non potevo essere lì per loro; c’è il fatto di non poter essere presente per gli amici quando hanno bisogno di me.
Tutto però viene cacciato via con una sorriso, quando, cercando di riparare la macchina sterilizzatrice in sala operatoria, mentre il chirurgo opera, guardi fuori dalla finestra e vedi i panni stesi al sole, mentre un uomo passa con la zappa e si mette a preparare il terreno per seminare. Che paese unico! Che gente unica!
Enrico Carraro – Volontario Cuamm in Sud Sudan