«Nel 2017 ho lasciato il Sud Sudan e sono venuta qui, a Rhino Camp. Sono arrivata con il mio compagno e nel campo è nato Giben, il nostro bambino».

Viola ha 19 anni e tiene in braccio il figlio di sei mesi, mentre aspetta il suo turno per i vaccini all’interno del centro di salute di Siripi. È una delle tante madri sud sudanesi in fila, fianco a fianco con quelle ugandesi. Il centro di salute di Siripi, infatti, serve sia i rifugiati che la popolazione residente: 8.300 persone, piccoli agricoltori e pastori, che negli ultimi anni hanno accolto senza battere ciglio 7.500 rifugiati solo in questo villaggio.

Ad Siripi, come in tutto il West Nile, nel Nord Ovest dell’Uganda, i rifugiati girano liberamente per il campo, possono costruirsi una capanna sul terreno che gli viene affidato dalla comunità, dove vivere con la propria famiglia.

«Oggi sono sola – continua a raccontare Viola – perché il mio compagno è tornato in Sud Sudan, a casa sua, ma non so come stia o se tornerà qui da noi, perché le comunicazioni sono impossibili».

Il caso di Viola non è unico tra i rifugiati: le donne infatti sono a capo della maggioranza delle famiglie rifugiate. Gli uomini restano in Sud Sudan, per proteggere la casa o per prendere parte agli scontri che durano dal 2013. In alcuni casi accompagnano le famiglie al confine o anche fino al villaggio di destinazioni, ma poi tornano in Sud Sudan. Tutte le donne raccontano che non sanno che fine abbiano fatto i loro mariti e che devono da sole farsi carico di tutta la famiglia.

«È dura – ammette Viola – non avevamo molto e ora che sono sola non abbiamo niente: è difficile trovare il cibo, ma per fortuna qui ho ritrovato mio padre. Non so cosa succederà nel futuro, se tornerò in Sud Sudan o no, ma insieme proviamo a guardare avanti».

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