Carità

di Don Luigi Mazzucato
Padova, 20 aprile 2013

Per il professor Canova la carità non è semplicemente una parola importante, è la chiave di lettura e di interpretazione di tutta la sua vita.

Rimasto orfano di padre, operaio al Lanerossi di Schio, all’età di otto anni, conosce presto i costi della sofferenza e della povertà, e il suo animo ne rimane profondamente segnato, orientando già scelte e azioni future.

Decide di studiare Medicina. Da universitario si fa promotore di una San Vincenzo della FUCI, maschile e femminile, per occuparsi delle famiglie bisognose del quartiere Portello.

Dopo due anni dalla laurea, nel 1935, parte per andare a fare il medico missionario tra i beduini della Giordania. Nel periodo di internamento in Palestina, tra gli anni 1940-1944, si mette alla ricerca delle tracce di Gesù, ripercorrendo i suoi passi, e si appassiona di Lui. Lo colpisce e lo coinvolge in particolare il suo passo verso i poveri, i malati, i derelitti, gli ultimi e vi scopre, come in piena luce, il volto della misericordia e della bontà di Dio, quale messaggio della bella notizia da comunicare all’uomo.

Gesù parla e conferma la verità della sua dottrina con le opere della carità che compie.

La parabola del buon samaritano fotografa al meglio l’atteggiamento di Gesù in proposito. Canova ne fa oggetto di meditazione e nasce in lui un desiderio vivissimo di imitarlo. Canova è sorpreso, come appunta nelle sue riflessioni, che “la carità di Cristo si spinga fino a far ricorso alla sua sconfinata potenza divina quando si tratta dei bisogni degli altri (degli altri guariva le malattie, anche più gravi, risuscitava i morti, perdonava i peccati) e che invece quando si trattava di sé, delle sue sofferenze nel corpo e nell’animo, egli si rifà alle sue sole risorse umane, non esclusa naturalmente quella della preghiera, come il lamento sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt. 27, 46).

La carità di Cristo diventa per Canova il centro dei suoi pensieri, una molla potente che gli scatta dentro, come il fuoco del profeta Geremia che sentiva bruciargli le ossa e non riusciva a contenere (Ger. 20, 9).

La missione per Canova si fa molto chiara: «Andate, curate gli infermi» (Mt. 10, 58). E la motivazione gli risuona altrettanto forte, secondo l’espressione di San Paolo: «La carità di Cristo ci spinge» (2a Cor. 5, 14). È l’amore di Cristo che non solo si fa prossimo, ma che si incarna, che condivide in tutto la condizione umana, eccetto il peccato.

È un amore che si indigna, pieno di tristezza, verso il cuore ostinato dei suoi accaniti contestatori, che vogliono denunziarlo perché guariva in giorno di sabato. E sbotta: «Che cosa è permesso di fare in un giorno di sabato? Fare del bene o fare del male? Salvare la vita di un uomo o lasciarlo morire?» (Mc. 3, 1-5).

È un cambiamento radicale che instaura: guarisce senza mai chiedere nome, provenienza, nazionalità, religione. Al concittadino sembra anzi preferire lo straniero e ne elogia la fede. Agisce in giorno di sabato, quasi in modo provocatorio, per affermare che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato.

Nel 1950 Canova, con il consenso e il sostegno del Vescovo Bortignon, fonda il CUAMM con lo scopo di vivere il Vangelo, proponendosi di imitare Cristo soprattutto nella pietà che provava verso chi era nella sofferenza e nel bisogno e traducendo la scienza medica in un servizio di carità.

Professionalità e testimonianza vengono unite insieme a caratterizzare il medico missionario, il medico del CUAMM. Curare gli infermi, salvare la vita là dove non c’è nessuno che lo faccia (qualcuno dice: nell’ultimo miglio), proclamare il diritto alla salute per tutti, là dove non esiste o è completamente ignorato. È lì che ci spinge la carità di Cristo intesa da Canova.

Per lui la carità non significa elemosina, non è scambio: ti aiuto a diventare medico e tu poi vai a fare il medico per 3-5 anni in un ospedale missionario. La carità vera è frutto di convinzioni e non di convenienze e si realizza nella libertà. Nell’idea di Canova per l’ospedale missionario la carità è un problema di equità, è la ricerca di un equilibrio nella giustizia distributiva, così da far pagare i più abbienti e assistere gratuitamente i più poveri; è evitare la tentazione di realizzare dei guadagni, sia pure per devolverli ad altre opere caritative; è far entrare nella direzione e amministrazione degli ospedali missionari anche elementi locali tra i più qualificati e rappresentativi, perché le popolazioni tra le quali l’ospedale sorge lo sentano come cosa propria e si preparino ad assumerne in proprio, domani, le sorti. Questa evoluzione, secondo Canova, è sulla linea di una genuina carità e quindi non solo è auspicabile, ma necessaria (Quattro venti, febbraio 1973).

Tradotto in termini attuali vuol dire integrazione dei servizi sanitari diocesani e governativi, partenariato tra pubblico e privato non-profit, studio dei bisogni e delle priorità fatto insieme, vuol dire prendere decisioni e lavorare insieme.

La scelta di chiamarci noi Medici con l’Africa e non per l’Africa ha questo significato, è questione di metodo e di sostanza.

Per le categorie di persone che si trovano in situazioni difficili, problematiche, di grave disagio, la carità è per Canova soprattutto ascolto, non commiserazione, ma comprensione, è ridare fiducia, seminare ottimismo, è portare la pace ai sentimenti dell’uomo. È lo scopo di tutti i suoi libri: rendere una persona serena e simpatica a se stessa e agli altri (Intervista su Cuamm Notizie, settembre 1986).

La carità che ci trasmette oggi il prof. Canova non è emergenza, un intervento in situazioni di crisi o di drammatiche necessità. È un impegno costante, è urgenza: «Charitas Christi urget nos», dice il testo latino di San Paolo. È urgenza per l’Africa dove la povertà impera, perpetrando condizioni indegne di esseri umani, dove migliaia e migliaia di mamme muoiono ancora ogni anno di parto e milioni di bambini muoiono ogni anno nell’atto di nascere, assieme alla madre, o nei primi giorni di vita, entro il primo mese, sotto i 5 anni. È un grido angosciante di dolore che ci giunge, infinito, senza limiti, una lunga attesa di speranza.

È urgenza per la Chiesa che, con papa Francesco, sembra incamminata a ritrovare il suo posto nel mondo, vicino alla gente, al servizio dei poveri, povera essa stessa, spogliata del molto inutile o superfluo o dannoso che si era messo addosso e rivestita della carità di Cristo, il cui sudario non aveva tasche, una Chiesa col grembiule ai fianchi, come auspicava don Tonino Bello, ricordandolo in questo ventesimo anniversario della sua morte.

È urgenza per il nostro paese, bisognoso di risollevarsi dallo stato di umiliazione e di depressione in cui è ridotto.

La carità di Cristo continua ad essere urgenza per noi, Medici con l’Africa Cuamm, che abbiamo il dovere di mantenerla viva e non aver paura di annunciarla ai Quattro Venti, seguendo le orme del fondatore, profeta antesignano del Concilio, e ascoltando la voce dello Spirito, che non cessa di provocarci ogni giorno.

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