«La struttura adesso è buona, ma stiamo intervenendo per renderla ancora migliore» racconta il dott. Ambrose mentre visitiamo il centro per il ricovero dei malnutriti dell’ospedale di Arua, in Uganda. «Qui fuori nascerà una zona all’aperto nella quale possono stare le donne quando dentro non si resiste per il calore».

Siamo a novembre, e la stagione secca è appena all’inizio, ma restare chiusi in stanza è effettivamente una sofferenza per quelli che potrebbero permettersi di uscire all’aperto.

«Anche le pareti vanno ridipinte, l’ambiente è troppo scarno. Servono colori vivi, perché i bambini malnutriti devono essere stimolati in tutti i modi possibili» prosegue Ambrose. Lui è il referente del Cuamm per gli interventi in quest’area dell’Uganda, e fra i suoi compiti c’è anche quello di supervisionare le attività degli operatori locali. Assieme a noi ci sono altri due colleghi del Cuamm: il dott. Damasco, medico di sanità pubblica, e Aminia, nutrizionista. Le infermiere si rivolgono a loro con rispetto, ma anche con la confidenza di chi lavora fianco a fianco per un obiettivo comune. Li interrogano sui modi migliori per affrontare i problemi, ascoltano attente i loro suggerimenti, mostrano orgogliose i progressi. E i risultati si vedono: da quando il Cuamm ha iniziato a supportare il centro, la mortalità dei bambini malnutriti è diminuita dal 30% al 9%.

«Qui, di fronte alla tenda per le emergenze, abbiamo ricavato un’area di spazio comune nella quale le donne possono allattare assieme i propri figli» spiega adesso Damasco. «Hanno così l’occasione per confrontarsi e darsi coraggio l’un l’altra».

«Sono belli questi poster informativi» interviene Ambrose, indicando i cartelloni appesi nella stanza, che riportano consigli su come prendersi cura dei neonati. «Peccato che siano in inglese» aggiunge con un sorriso. «Qualcuna di voi conosce l’inglese?» chiede, in dialetto, alle mamme che stanno allattando. La risposta è unanime: nessuno parla una lingua diversa da quella locale.

Vedere i bambini che soffrono di malnutrizione è uno degli spettacoli più difficili da sopportare. La mia pelle bianca, poi, attira molte attenzioni e ho spesso la sensazione che tutti si aspettino un aiuto da me. Questo a volte non fa che aumentare il mio senso di frustrazione perché non sono un medico, il mio ruolo è fuori dall’ospedale, e qui dentro non saprei cosa fare. Oggi però è diverso: vedo Aminia, Ambrose, Damasco e le infermiere che discutono tra di loro, trattano ogni paziente con la massima cura, fanno attenzione anche ai dettagli. Allora ricordo che, in fondo, il mio compito è proprio questo: lavorare per fare in modo che tutto ciò sia possibile. Penso questo, e mi prende un nuovo entusiasmo.

 

Erica Barazzuol, staff Cuamm in missione in Uganda

 

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