Ieri alle cinque del pomeriggio, col consueto caldo che taglia il respiro, hanno cominciato ad arrivare di nuovo i gunshot, gli “sparati”.
Prima uno, poi due, poi tre… insieme a loro la solita coorte di accompagnatori che forza gli striminziti cancelli di ferro del lungo braccio che ospita il reparto adulti. Tutti lì, implacabili, inarrestabili, che gridano e che vogliono entrare a tutti i costi. Ma alla fine con i nostri infermieri del turno pomeridiano riusciamo ad arginarli.
Poi però… quattro, cinque, sei, il numero dei feriti aumenta, implacabile. Chi le gambe, chi le braccia, il collo, il polmone, il viso. Sempre più difficile, il caos aumenta. Tutti che urlano, lo staff stanco e nervoso non riesce a far fronte a questa ennesima ondata di dolore e disperazione. Con un po’ di fatica però, anche questi vengono gestiti. Sono già le sei, sotto la guida impeccabile della giovane Alida, l’infermiera che ogni giorno mi affianca in reparto, ancora una volta, si riescono a fornire a queste anime perse le prime cure del caso. Alle volte non so più se definire questi feriti dei poveretti o a loro volta dei colpevoli, che per un vecchio furto di vacche che si perde oramai nel passato continuano a perpetuare vendette dall’esito sempre scontato.
Sono le sei e mezzo, qui non servo più, tutto è nuovamente sotto controllo.
Vado a casa, una doccia e prendo soldi e bicicletta per andare “in centro” a comprare qualcosa per la sera. Ormai sta diventando consuetudine trascorrere la serata del sabato con gli amici ugandesi: sono garantite battute, risate e danze. Torno a casa con lo zaino pieno. Ho mangiato polvere e sono nuovamente tutto sudato. Dico a Nicoletta e Alida di sbrigarsi che è quasi ora ma… Alida non c’è! Come non c’è? E’ tardi! Così mi decido e vado a cercarla in ospedale.
Lì mi aspetta la sorpresa: mentre ero fuori sono arrivati altri “sparati”, alcuni sono già stati adagiati nei letti, altri ancora per terra tra stracci insanguinati, polvere, sporcizia di ogni genere. Comincio a contare da dove avevo finito e quindi: sette, otto, nove, undici…Caspita! Arrivo a contare diciotto feriti, incredulo. Ma mi sbaglio: in un angolo, spaventato e ammutolito come un pulcino bagnato, c’è il più giovane di tutti, appena nove anni con entrambe le gambe attraversate da un unico proiettile. Sono quindi diciannove in tutto, gli “sparati”.
E l’inferno ancora una volta è tornato a farci visita. Urla, sporcizia, disperazione. Dobbiamo anche fare attenzione a come rispondiamo. Un atto di stizza può scatenare reazioni rabbiose. Il reparto contiene solo venti letti e tanti sono anche i ricoverati per altri motivi. Nuovi materassi si aggiungono per terra vicino alle macchie di sangue, e alla terra copiosa che è stata trasportata dentro, È bagnato ovunque. Flebo da una parte cerotti dall’altra, un andirivieni incontrollabile di familiari che portano pentolini caldi di minestra e polenta per dar da mangiare ai propri congiunti.
Nello spazio angusto del reparto manca l’aria, seguo Alida che come in trance continua a scrivere sulle cartelle cliniche le terapie che sono state somministrate. Ha il viso stravolto, mi fa preoccupare, è bianca come un cencio. Infine anche questa nuova ondata di feriti viene soccorsa e trattata. Trascino via Alida, che rimarrebbe tutta la notte lì e andiamo finalmente a mangiare.
Nel frattempo faccio in tempo a tornare in prigione con Sister Maria, la suora, a ridare conforto ai poveri condannati che vivono a pochi passi dall’ospedale. Mi dicono che hanno fame, che sono due giorni interi che non mangiano nulla e bevono solo acqua calda. È inaccettabile. Chiedo al direttore di poter acquistare della farina per loro e lui accetta di buon grado. Almeno domani un centinaio di carcerati metteranno nuovamente qualcosa sotto i denti.
Dopo poco sembra tutto dimenticato. Rivedo Alida e gli amici ugandesi, riusciamo a ridere, scherzare. Questa terra meravigliosa fa anche di questi miracoli.
Vito Sgro – Pediatra in Sud Sudan